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"Arriva di notte, avvolta in un mantello nero come il corvo. Nessuno la vede arrivare, si accomoda vicino al malato come una madre in pena, mastica lentamente una cantilena di preghiere mentre sveste il sacro dalle pietre e dalla carne, regola importante per poter finalmente consegnare il malato al riposo ed all’eterna pace."
“L'ora del corvo” è un’idea per un film documentario, ideato e pensato per concludere un percorso fatto di studio e ricerca su di un fenomeno che ha destato l’interesse di molti studiosi di antropologia: s’Accabadora.
Questa figura, espressione di un fenomeno socio-culturale e storico, nei piccoli paesi rurali della Sardegna è legata al rapporto che i sardi avevano con la morte.
Il compito dell'accabadora non è tanto quello di mettere fine nel senso letterale del termine alle sofferenze dei moribondi, quanto quello di cercare di accompagnarli alla fine della loro agonia tramite riti di cui si è persa la memoria.
Per realizzare questo documentario abbiamo fissato un budget che ci aiuti a sostenere le fasi principali della produzione: organizzazione, attrezzatura, montaggio, post-produzione.
Raccontare un paese, un ricordo, una novità, una tradizione ormai perduta, raccontare il volto, l’atmosfera, la gente che vive e quella che invece deve sopravvivere: compito immane, da far tremare le vene, da far bruciare gli occhi nello sforzo di osservare una realtà immaginata, forse, appresa e capita...
Il cinema come sguardo, a volte ansioso, ma che riesce ad abbracciare tutto il visibile, il godibile, il conoscibile. Raccontare senza lasciarsi prendere dalla frenesia delle immagini inconsuete e pure già previste dentro di noi che ce le portiamo dietro dall’infanzia e dai ricordi del vivere quotidiano.
Raccontare con immensa pazienza, con calma, con grande rispetto delle immagini che vorrebbero probabilmente rovinarci addosso con la loro bellezza, che vorrebbero sommergerci di suoni, di colori, di domande inespresse.
Immagini bloccate, abbacinate di luce e di silenzi, immagini ferme, attente, desiderose di mostrare quello che c'è dentro il paesaggio, dietro l'inquadratura, sui volti , negli occhi e aldilà dei sorrisi.
È questa la nostra idea di cinema!
Il termine sardos'accabadóra, (lett. "colei che finisce", deriva dal sardo s'acabbu, "la fine" o dall'arabo acabar, "terminare") denota la figura storicamente incerta di una donna che si incaricava di portare la morte a persone di qualunque età, nel caso in cui queste fossero in condizioni di malattia tali da portare i familiari o la stessa vittima a richiederla.
Secondo la leggenda popolare le pratiche di uccisione utilizzate dalla “Femina Accabadòra” variavano a seconda del luogo e si svolgevano pressoché in questo modo: i parenti della vittima, spogliavano la stanza da ogni immagine e simbolo sacro, veniva tolto al morituro perfino l'olio santo dalla fronte, questo per facilitare il trapasso dell'anima. La morte secondo la credenza popolare avveniva tramite soffocamento per mezzo di un cuscino posto sulla faccia del morente, oppure con un colto di bastone d'olivo (su mazzolu di se ne conserva l'unico esemplare nella casa museo di Luras in Sardegna) sulla fronte, o ancora strangolandolo tra le sue gambe.
Nonostante oggi si metta ancora in dubbio la veridicità di questa pratica, la sua esistenza è sempre stata ritenuta un fatto naturale in Sardegna, come esisteva la levatrice che aiutava a nascere, esisteva s'accabadora che aiutava a morire. Si dice addirittura che molto spesso le due figure fossero ricoperte dalla stessa persona e che il suo compito si distinguesse dal colore dell'abito (nerose portava la morte, bianco o chiaro se doveva far nascere una vita).
Sono molti gli studiosi che con le loro pubblicazioni hanno cominciato a fare luce su questa particolare forma di eutanasia praticata in Sardegna fino agli inizi del 1900, analizzando e mostrando come il mondo passato viveva il culto del dolore e della morte e mentre sono tutti concordi sulla veridicità del rito magico, alcuni affermano che l’aspetto cruento del rito sia solo una pura e mera invenzione.
Il film documentario non intende avvalorare nessuna tesi, non vuole ricercare nessuna verità, ma vuol soltanto raccontare un fenomeno tramandato per secoli attraverso i rocconti degli studiosi, le memorie dei testimoni, i pensieri degli scrittori ed i racconti e di tutti coloro che in un modo o nell'altro hanno avuto a che fare con questo affascinante e misterioso fenomeno del passato.
“Non moriva! Era da giorni che non riusciva a morire... gridava, voci che non ti dico. Poi è arrivata lei, la signora della morte, in carne e ossa, «s'accabadora», vestita di scialle come una qualunque madre di famiglia. «Tzia Malleni» la chiamavano. È entrata in camera da letto e ha fatto quello che doveva fare. «E io l'ho vista con questi miei occhi», soltanto allora zia Piliedda è morta, subito è morta, quando è arrivata tzia Malleni, minuti sono passati, non più di minuti: dopo che le ha ficcato quel piccolo giogo, lei è morta. Morta e basta».
(Paolina Concas - testimone oculare)
“Mia nonna, mi disse il vecchio, era l'ultima di quelle donne che portavano consolazione ai malati che desideravano morire e conforto alle loro famiglie. La chiamavano perché era decisa e forte: non andava volentieri, ma sapeva di dover fare un'opera buona. Non ti voglio dire come si chiamava, mi avvertì il vecchio, però ti posso dire che veniva chiamata "Cunsuleddha", proprio perché era una consolatrice. Il vecchio racconta che sua nonna, "nonostante la carità che fece per tutta la vita, alla fine soffrì molto per questa sua attività. Ne abbiamo sofferto tutti in famiglia.” E proprio per questo disse che una sua nipote si fece suora per espiare. Quell'uomo, sentiva ancora tutto il peso di quella eredità.
Quando gli chiesi se potevo vedere il martello lui non fece una piega. Nonostante l'età salì come uno scoiattolo su una scala a pioli, arrivato in cima scoperchiò alcune tegole e porto giù una pesante mazzuola di legno coperta di fuliggine. Ci soffio sopra e, svanita la nuvoletta, mi colpì la lucentezza del martelletto, come quella di un oggetto levigato dall'uso.
Purtroppo ebbi la cattiva idea di tentare di fotografarlo. L’anziano si infuriò e lo lanciò lontano.”
(Franco Fresi, scrittore e studioso di tradizioni popolari)
“Io l'ho vista. Noi eravamo li, siamo andate, due nuore sono venute con me, eravamo tre, quattro. E gridava, la moribonda, c'era il prete che le aveva dato i sacramenti, poi quando il prete è uscito, hanno tolto tutto dalle pareti, i santi, tolti tutti, tutto, tutto tutto... Il sacramento le colava sulla testa e anche quello le hanno tolto. Quella sera lì non l'abbiamo vista quando l'ha tirato fuori, perché lo aveva nascosto sotto il grembiule questo jualeddu, ma doveva essere molto piccolo, quaranta centimetri, un piccolo giogo, simile al giogo grande che fanno per i buoi, di legno. Quando gliel'ha messo, alla moribonda, giusto qui, sotto il collo, quella è morta subito. Quando noi abbiamo visto questo ci siamo impaurite…”
(Paolina Concas - testimone oculare)
"Con il caro amico tiu Ghjuanni Maria, mi capita spesso di fare delle passeggiate in campagna. Durante una di queste mi disse che quando era bambino il nonno gli aveva parlato di una donna, delle campagne di Luras, che, utilizzando un martello di legno, aiutava gli agonizzanti a morire. Sul momento la notizia mi lascia indifferente ma, durante la notte, penso che dietro quell’informazione si possa nascondere qualcosa di molto affascinante e importante…”
(Pier Giacomo Pala - casa museo Luras)
“Gli ultimi episodi certificati che si conoscono sono due. Uno a Luras nel 1929 e uno Orgosolo nel 1952. A Luras, in Gallura, l’ ostetrica del paese accabbò un uomo di 70anni. La donna però non fu condannata, il caso fu archiviato. I carabinieri, il Procuratore del Regno di Tempio Pausania e la Chiesa furono concordi che si trattò di un gesto umanitario. Si dice che aiutavano a morire utilizzando un bastone o soffocando con un cuscino e perfino strozzando il morituro tra le cosce. La pratica più comune e diffusa sembrerebbe essere quella dell’utilizzo di un giogo, esattamente quello che si utilizza per i buoi, si dice perfino che il giogo che sta in tale casa e che è stato messo per quella tal persona, porterà il suo nome. Oltre i casi documentati, moltissimi sono quelli affidati alla trasmissione orale e alle memorie di famiglia.”
(Alessandro Bucarelli - medico legale e antropologo criminale Università di Sassari)
Laboratorio autonomo di studi e ricerca su tematiche inerenti l'etno-antropologia e la visual art, creato e gestito da studenti universitari e antropologi visuali per riscoprire e recuperare il documentario etnografico sulla scia degli insegnamenti dei grandi maestri come Vittorio De Seta, Luigi Di Gianni, Sergio Spina ecc. ecc.
Inoltre il gruppo si pone anche lo scopo di incrementare la conoscenza e la diffusione di:
- Laboratori di studi etno-antropologici
- Produzione di documentari
- Gestione e implementazione di un archivio video ed audio sull'etno-
antropologia
- Creazione e gestione di un blog/magazine per la diffusione della
ricerca
- Laboratori formativi per cinema e documentari
- Organizzazione, gestione, produzione e realizzazione di eventi
culturali, festival, conferenze e residenze artistiche
Deep Transition - https://vimeo.com/37475496
Kanun - https://vimeo.com/14797439
La pesca del pesce spada - https://www.youtube.com/watch?v=aNLOPNa7-w8
"L'ora del corvo" è un progetto sostenuto in partenza dalla Fondazione SARDEGNA Film Commission e abbiamo fissato un budget che ci aiuti a sostenere le fasi principali della produzione: organizzazione, attrezzatura, montaggio, post-produzione.
Questo vuol dire che potrete vederlo comodamente seduti sul divano, sul vostro tablet, pc, Tv e perfino cellullare.
Realizzare questo progetto per noi è assolutamente importante, ci permetterebbe di mettere a frutto tutte le nostre ricerche in un prodotto video che speriamo possa non solo stupirvi ma anche informare e far conoscere tradizioni tramandate nei secoli e che senza un'adeguata ricerca, un accurato studio e una documentazione audiovisiva rischiano di scomparire per sempre.
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