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Il nostro Pianeta è entrato in una epoca di estinzione di massa che gli esperti paragonano alla scomparsa dei dinosauri 60 milioni di anni fa. Noi ( Elisabetta Corra' giornalista ambientale Free lance per La Stampa e Davide Cisterna, fotografo professionista esperto di fotografia naturalistica) abbiamo deciso di raccontare quanto sta accadendo da reporter ambientali indipendenti perché crediamo nel giornalismo ben documentato, eticamente libero e sperimentale.
Il prossimo 8 luglio partiremo per la Kgalagadi wilderness, 37mila chilometri quadrati di praterie sabbiose e semi-desertiche tra il Sudafrica e il Botwsana. Vogliamo esplorare un territorio tagliato fuori dai racconti africani pubblicati sui grandi media, e soprattutto dai soliti reportage sui leoni. Il Kgalagadi non è il Masai Mara e neppure il Serengeti; ci aspettano interminabili ore di jeep in spazi piatti e aridi. Ma questo è un incredibile bacino di biodiversità per mammiferi e uccelli rapaci. Il Kgalagadi appartiene allo Okavango-Hwange Ecosystem : un habitat immenso in cui lo spazio torna ad essere ciò che è stato fino a 10mila anni fa. Una mappa geografica senza confini se non nella storia della espansione di Homo sapiens.
Andremo nel Kgalagadi perché il Kgalagadi non è una riserva. Qui tutte le specie possono spostarsi seguendo antiche rotte migratorie, e l’equilibrio tra predatori e predati è ancora sostanzialmente intatto. Lo spazio sta diventando raro in Africa. Con una demografia umana esplosiva - 1,2 miliardi di persone nel continente che cresceranno di 4 volte entro questo secolo - ciò che resta per i grandi mammiferi non sarà sufficiente a garantire la sopravvivenza di elefanti e leoni. Quasi mai il giornalismo mainstream in Italia è disposto a raccontare questa verità. I leoni sono quasi sempre presentati come gli indispensabili gadget di un turismo mordi e fuggi. Noi vogliamo entrare nel loro territorio, provare a incontrarli in un habitat che non fa sconti a nessuno, sorpassare la linea d’ombra tra l’illusione di una Africa senza compromessi alla Karen Blixen e l’inevitabile umiltà di un Pianeta da condividere con le altre specie.
Ma chi sono i leoni del Kgalagadi?
Nel 1908 il biogeografo Richard Lyddeker (membro della Zoological Society e curatore di paleontologia al Natural History Museum di Londra) riteneva che nella Colonia del Capo, in Sudafrica, i leoni maschi avessero criniere “enormemente lunghe, folte e nere”. Il naturalista F.Vaughan Kirby, che conosceva bene Lyddeker, parlando di questi stessi leoni, scrisse che il loro ruggito era “il suono più sublime di quelli udibili in natura”.
Oggi, dei circa cento leoni del Kgalagadi si dice che abbiano la criniera nera: sono loro, probabilmente, ciò che resta dei leoni del Capo (Felis leo capensis), che un tempo, vivevano anche nelle pianure interne del Sudafrica e ad occidente del Great Eastern Escarpement (che separa, in longitudine, i distretti occidentali, lungo la linea Capo di Buona Speranza-parco nazionale Kruger, dalle regioni centro orientali del Paese). I leoni del Kgalagadi hanno alle spalle una storia di sfruttamento coloniale, come i San, i cacciatori raccoglitori con cui hanno condiviso per millenni la porzione a sud del deserto del Kalahari, perseguitati dai contadini Boeri, braccati dai cacciatori scozzesi in kilt e infine dalla legislazione razzista dell’apartheid. Qui un popolo e una specie animale hanno incontrato il loro destino. Ma due secoli fa colonialismo voleva dire anche zoo: cacciati fino all’estinzione, i leoni del Capo finivano pure nelle menagerie delle corti europee.
Seguiremo le tracce dei discendenti di questi leoni muovendo dal confine sudafricano fin dentro il Botwsana, verso il Nossob River, nel deserto del Kalahari. Perché gli ultimi cento leoni del Kgalagadi sono un bacino genetico importantissimo per il futuro. Questo è un viaggio in una delle ultime roccaforti storiche di Panthera leo in Sudafrica (decisamente più selvaggio del Grande Kruger), un habitat isolato e quasi proibitivo per le alte temperature diurne, a tre ore di jeep dalla cittadina di Upington e due ore di volo da Johannesburg. Avremo con noi un GPS e i taccuini di caccia degli esploratori britannici dell’epoca della Regina Vittoria.
Ci muoveremo lunghe piste sabbiose che coincidono con il labirinto di estinzione in cui il leone africano sembra ormai incamminato. Perché ormai nessuno di noi può più permettersi di identificare l’Africa con il toponimo romano “hic sunt leones”. Il leone potrebbe scomparire dal continente entro questo secolo. Tra il 1993 e il 2014 ( in 3 generazioni ) la popolazione è crollata del 43%. Attualmente i leoni occupano solo il 17% del loro range originario. Ne sono rimasti 20-25 mila, contro i 100mila di inizio Novecento.
Il Kgalagadi è un’isola felice, e potrebbe rivelarsi cruciale proprio perché sconfina nel Botswana, connettendo geograficamente tutti i leoni del sud del Kalahari con quelli del centro-nord.
Il Kgalagadi è un avamposto nella geografia della speranza.
Enormi parchi nazionali su scala continentale.
Una alternativa alle riserve cintate.
La visione di un un Pianeta almeno in parte ancora, e per sempre, wild.
Oggi, il giornalismo indipendente è minacciato dalla carenza di fondi. Noi reporter abbiamo bisogno ora come non mai del sostegno economico di chi è convinto che la protezione di animali ed ecosistemi sia un impegno non più derogabile. Conoscere la verità sui processi di estinzione ormai in corso è un diritto civile, che siamo decisi a difendere come obbligo etico della nostra professione. Siamo perciò grati a tutti coloro che vorranno rendere questa spedizione possibile.
Con gratitudine
Davide & Elisabetta
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