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Il progetto di finanziamento su Produzioni dal Basso punta a raccogliere i fondi necessari a coprire le spese di acquisizione diritti, traduzione, pubblicazione e promozione del libro in Italia.
Pensiamo che il tema della libertà di pensiero nei Paesi arabi, e in quelli del Medio Oriente in particolare, sia di particolare importanza e interesse soprattutto alla luce del sempre più frequente incontro (e a volte scontro) di tradizioni e fedi diverse dentro e fuori l’Europa.
In questi paesi, dichiarare apertamente di non credere in Dio significa compiere un atto clamoroso e talvolta pericoloso, a volte significa firmare la propria condanna a morte. Eppure sempre più persone, incoraggiate dalle rivolte delle Primavere arabe e dalla diffusione del social media, trovano la forza di esprimere le loro idee.
Nei luoghi di origine di una delle più diffuse religioni del mondo alla fine scopriamo che c’è molto più fermento e diversità di vedute di quello che siamo abituati a pensare in Occidente. Governi e autorità religiose si trovano di fronte a una sfida alla loro autorità divina che non si può più semplicemente reprimere o ignorare.
In questo libro pionieristico vengono descritte le mille sfaccettature del problema della fede e il dibattito in corso nei paesi mediorientali secondo il metodo dell’inchiesta giornalistica e dello studio sociale.
La sua particolarità è la ricchezza di vive voci del Medio Oriente di oggi: Whitaker non commenta sul “sentito dire”, ma incrocia l’esperienza sulle questioni mediorientali con la ricerca sul campo di testimonianze dirette di chi combatte quotidianamente per la libertà di culto in quelle zone. Ne viene fuori un libro che ritrae in maniera esaustiva e coinvolgente il tema dell’ateismo e del non credere dagli albori dell’Islam ai giorni nostri.
Il libro “Arabs Without God” è uscito a metà 2014 in formato ebook, autopubblicato dall’autore. Nell'area File sono disponibili l'indice e l'introduzione del libro tradotti in italiano.
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Brian Whitaker è stato caporedattore per il Medio Oriente del Guardian dal 2000 al 2007. Attualmente è un giornalista freelance e continua a scrivere sul quotidiano britannico. È l’autore di “What’s Really Wrong with the Middle East” (Cosa c’è davvero che non va in Medio Oriente, 2009) e “L'amore che non si può dire. Storie mediorientali di ragazzi e ragazze” (2008). Il suo blog sulla società e la politica araba è www.al-bab.com.
Giordano Vintaloro è un traduttore e copywriter freelance. Insegna lingua e civiltà inglese presso le università di Trieste, Pisa e presso il CIELS, Scuola superiore universitaria per mediatori linguistici. Ha pubblicato due volumi di ricerca sull’umorismo e scrive per la Rivista il Mulino online. È uno dei segretari di Strade, Sindacato dei Traduttori Editoriali. Il suo sito è www.vintaloro.it.
Corpo60 è una casa editrice e service editoriale digitale nata nel 2014. La nostra idea è quella di produrre libri digitali di qualità, curati in tutte le fasi della loro produzione. Ci occupiamo di narrativa contemporanea, saggistica e pubblicazioni universitarie. Il nostro sito è www.corpo60.it.
"Nella città palestinese di Qalqilya, il 25enne Waleed al-Husseini era stato folgorato da un’idea stravagante anche se irriverente. Decise che era ora che Dio avesse una pagina su Facebook – e si accinse a crearne una. L'ha chiamata Ana Allah (“Io sono Dio”) e il primo post annunciava scherzosamente che in futuro Dio avrebbe comunicato direttamente con le persone tramite Facebook poiché, pur avendo inviato profeti secoli fa, il suo messaggio non era ancora stato recepito."
("Arabi senza Dio", cap. 1)
Waleed è stato incarcerato e sottoposto a un interminabile processo perché il suo ateismo era una "minaccia alla sicurezza nazionale". Oggi vive in Francia, dove però si deve ancora confrontare con le pressioni al conformismo, come racconta in questo articolo: http://www.freearabs.com/…/2121-jb-span-waleed-al-husseini-…
Nel 2013 ha fondato il Consiglio degli ex Arabi di Francia, e a quelli come lui che vivono ancora nei paesi d'origine consiglia: "Tutto quello che posso fare è spronarli a essere più tenaci. Ne vale la pena."
Due mesi prima di essere arrestato Waleed aveva anche scritto sul suo blog: "I musulmani spesso mi chiedono perché ho lasciato l'Islam. Ciò che mi colpisce è che i musulmani non sembra riescano a capire che rinunciare all’Islam è una scelta offerta a tutti e che chiunque ha il diritto di farlo. Credono che chi abbandona l'Islam sia un agente o una spia di uno stato occidentale, in particolare dello Stato ebraico, e che si faccia pagare pacchi di soldi dai governi di questi paesi e dai loro servizi segreti. Non afferrano proprio il fatto che le persone sono libere di pensare e credere in ciò che le soddisfa [...]"
In Bahrain, Nabila ha avuto l’insolita esperienza di essere cresciuta da genitori che erano “fondamentalmente atei”. Suo padre apparteneva a un gruppo marxista-leninista clandestino e sua madre era un’attivista femminista, ma per ragioni di sicurezza lo nascondevano ai figli: “Erano controllati e tenevano tutto segreto”. Così, per i primi anni della sua vita Nabila credeva di essere una musulmana come tutti gli altri bambini nella sua scuola. C’erano però lo stesso delle cose della sua vita famigliare che la lasciavano perplessa.
Chiedevo continuamente ai miei genitori: “Perché non pregate?” “Perché non digiunate?” e mia mamma mi propinava delle scuse tipo: “Noi preghiamo, ma solo dentro le nostre camere”. OK, e perché non fai il digiuno? Mi diceva: “Io ho l’ulcera e tuo padre non riesce a smettere di fumare” – scuse molto stupide, ma per un po’ ci ho creduto.
Naturalmente di tanto in tanto sentivamo alcune storie degli amici di mio padre. Ad esempio, siamo cresciuti assieme a due bambini che erano come fratelli per noi e avevano perso il padre nel 1986 in carcere. Ci chiedevamo sempre perché non avevano un padre e da bambini ci dicevano che era un martire che aveva combattuto in Palestina. Credo che mio padre una volta mi abbia detto, avevo dodici o tredici anni, che in realtà era morto in carcere in Bahrain ma anche allora non mi ha dato particolari sul come o il perché, e non avevo idea che ci fossero dei veri partiti che lavoravano clandestinamente.
Nel frattempo la nonna di Nabila si era data la missione di farla diventare una buona musulmana, spronandola a imparare il Corano.
Mi ha detto di impararlo a memoria. Io cercavo di farlo ma non ci riuscivo. Mi ha chiesto: “Come fai a imparare le cose di scuola?”, e io le ho risposto: “Perché le capisco. Io questo non lo capisco”.
Così ha cercato di chiarirmele e subito dopo ho cominciato a farle delle domande. Mi ha spiegato che Dio ha creato ogni cosa, che Dio sa tutto, anche tutto ciò che a noi è sconosciuto, e cose del genere.
“Aspetta. Tu dici che Dio sa tutto. Sa che sto per nascere, conosce ogni singola azione che farò, tutto quello che dirò. Quindi, se sa tutto, sa anche quando sto facendo un errore. Perché dovrebbe punirmi per questo?”
Mi ha risposto: “No, non è così. Lui mette dei percorsi di fronte a noi e poi tocca a noi scegliere”.
Al che le ho detto: “Quindi Lui non sa quali scelte farò e perciò Lui non sa tutto”.
È così che sono iniziati i miei dubbi. Come si può dire che Egli è clemente e misericordioso e tutto, quando in realtà è uno spietato castigatore? Non c’era logica per me.
Tareq Rajab Sayed de Montfort è un giovane artista nato in Kuwait, gay dichiarato. Si definisce devoto, anche se in modo non convenzionale […]. Cresciuto in Kuwait, il suo primo contatto con l’Islam non è stato attraverso la moschea come ci si potrebbe aspettare, ma attraverso il museo della sua famiglia. Il museo privato Rajab Tareq, fondato da suo nonno, contiene più di 30.000 oggetti provenienti da tutto il mondo musulmano.
“Non ho mai sentito il bisogno di andare in una moschea perché avevamo dei rivestimenti della Ka’ba nella nostra cantina”, ha detto Tareq. “Ne abbiamo tre risalenti all’Ottocento quando erano ancora fatti al Cairo. Quelli del XIX secolo sono molto più decorati. Hanno l’intera parte frontale ricoperta in oro e ricamata in argento. Sono assolutamente incredibili. Abbiamo anche una delle più grandi collezioni private di calligrafia mediorientale dalle prime scritture su pergamena fino alla calligrafia islamica cinese del XIX secolo. Quindi Dio è stato molto presente, ma in un senso molto più astratto, molto più mistico”.
È stato da suo nonno e da questa collezione d’arte che ha ricavato la sua prima idea di ciò che era la religione – qualcosa nato dal culto della bellezza. “Ha dato completo fondamento alla mia comprensione dell’arte islamica. Ho visto la manifestazione delle parole del Profeta: ‘Dio è bello’ e ‘Dio ama la bellezza’”, ha detto a un intervistatore [dell’Huffington Post]. L’esperienza della crescita per Tareq è stata insolita e forse unica, e gli ha dato una prospettiva molto più positiva di quella che la maggior parte delle persone acquisisce dai sermoni nelle moschee. Inoltre, l’ha reso critico verso l’Islam maggioritario. […]
Tareq dice che la sua omosessualità non lo ha mai portato a dubitare della sua fede “o di quel senso del divino”, anche se riconosce che i traumi che altri subiscono li possono fare “decadere o disintegrare”. Questo problema non si porrebbe, ha suggerito, se i musulmani ascoltassero il consiglio del Profeta di “pensare da sé”:
Se ci facessimo carico delle cose come il Profeta ci ha chiesto di fare ... se la gente lo facesse davvero e leggesse il Corano, troverebbe che per noi c’è un modo nell’Islam per trovare il bello che contrasta col considerare l’omosessualità uno sbaglio, o con l’obbligo d’indossare l’hijab. È tutta interpretazione, e se vogliamo seguire ciò che il Profeta ci ha chiesto – interpretare con al-rahim (compassione), allora questo ci porterà a una forma più pura di Islam. E la forma più pura dell’Islam come la penso io è che l’omosessualità non sia un peccato e non sia punibile.
Se il profeta Maometto è il musulmano ideale che noi tutti dovremmo seguire, non esiste nessun hadith [aneddoti della vita del Profeta] che riferisca che egli abbia condannato gli omosessuali. Ci sono testimonianze in cui sembra che abbia permesso a degli omosessuali di rimanere in presenza delle sue mogli senza velo. Il Corano dice perfino che gli uomini che non provano desiderio [per le donne] sono autorizzati a vederle.
Cresciuta in una famiglia tradizionale di religione salafita, Noha ha imparato il Corano a memoria e una volta ha anche vinto un premio di declamazione. Alle superiori ha iniziato a indossare il velo dopo che un insegnante le aveva detto che “una brava studentessa dovrebbe avere anche buoni principi morali”. Più tardi, dal velo è passata al niqab, che copre completamente il viso, ma solo dopo il matrimonio sono iniziati a sorgerle dei dubbi. L’Egypt Independent continua la storia:
Un giorno, suo marito le ha dato uno schiaffo. Quando se ne è lamentata con il padre, lui le ha detto che Dio ha dato ai mariti il diritto di picchiare le mogli come indicato nel versetto della sura di An-Nisa’.
Allora lei ha cominciato a chiedersi come Dio potesse dare il diritto a un marito di picchiare la moglie e allontanarsi da lei ... come può essere se nello stesso tempo l’Islam proibisce di colpire gli animali? Le donne sono inferiori agli animali? Forse perché le donne sono fisicamente più deboli rispetto agli uomini e non possono reagire? Come si può permettere che vengano umiliate così?
Il loro rapporto ha cominciato a deteriorarsi. Suo marito la lasciava spesso sola a casa e rifiutava di comprarle un televisore, sostenendo che era haram (proibito).
Noha un giorno si è lamentata con il marito, facendogli notare la sua ipocrisia dopo averlo visto guardare la televisione a casa di sua madre. Lui a questo reclamo ha risposto picchiandola davanti alla madre.
Questo le ha fatto ripensare l’intero Corano, non solo una sura. In seguito ha letto in un testo di commento che quella sura si applicava in casi che non esistono più ai giorni d’oggi e in generale nella cultura moderna.
Il mettere in discussione la fede ha anche posto fine al suo matrimonio, giacché il marito credeva che l’Islam gli proibisse di rimanere sposato con un’apostata.
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